12 aprile 2019
Il crollo del muro di Berlino, nel 1989, è stato innanzitutto un evento simbolico e pieno di significati per il futuro: le barriere vengono abbattute, le frontiere abolite in vista di una nuova concezione dello spazio, dove il diritto di movimento tra Paesi diventa implicito ed inalienabile per ogni essere umano.
O almeno così credevamo, poiché è già dagli albori degli anni 2000 che si parla di “Fortezza Europa”.
Inizialmente, con il cosiddetto “Acquis di Schengen” del 1985, Germania e Francia e Lussemburgo stipularono un accordo a tre per rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione degli abitanti dei tre Paesi, coinvolgendo anche Olanda e Belgio.
In pochi anni si sono aggiunte anche tutte le restanti nazioni dell’Unione Europea, con modalità diverse ma accomunate da alcune caratteristiche: nessuna modifica né cancellazione del sistema doganale, ad esempio, e libertà di movimento circoscritta ai cittadini dei Paesi in questione o a chi dispone dei titoli di viaggio necessari.
E per chi arriva da fuori?
Instabilità politiche, tensioni crescenti, disordini diffusi tra Nord Africa – Medio Oriente ed Est Europa hanno fornito un alibi spendibile per giustificare la chiusura delle frontiere e l’innalzamento di nuove barriere interne tra i singoli Paesi UE, che selezionano gli ingressi in base al colore della pelle, il livello di benessere socio-economico, ed altri parametri contraddittori rispetto ai valori condivisi sui quale dovrebbe fondarsi un sistema politico continentale inclusivo e non discriminatorio.
Paradossalmente, invece, il benvenuto per chi arriva in Europa è il Regolamento di Dublino.
Ufficializzato nella capitale d’Irlanda, Paese che non ha mai aderito all’area Schengen, nasce originariamente con lo scopo di “impedire che un richiedente asilo facesse domanda per ottenere tale status in diversi Paesi, per poi accettare il responso più favorevole”, come ricorda Stefano Galieni su Left.
In men che non si dica, anche a causa delle successive riforme che ne hanno modificato il contenuto, si è subito trasformato in “uno strumento per fermare collettivamente le persone nel primo Paese dell’area Schengen in cui si veniva intercettati e obbligare a porre tale istanza lì”.
La conseguenza logica, più che prevedibile, è quella dei respingimenti collettivi: a pagarne le conseguenze sono gli ospiti sgraditi di una certa nazione, diversa da quella in cui sono arrivati per la prima volta in Europa, che vengono allontanati in attesa che il primo Paese di approdo accetti o rifiuti la richiesta di asilo.
Anche le barriere interne sono un problema di attualità stringente.
Nonostante l’investimento di milioni e milioni di euro per regolare i flussi, le leggi non sono sufficienti a gestire il fenomeno.
Ventimiglia, che delimita la frontiera ovest dell’Italia, è uno dei casi più eclatanti.
Per anni è stata attraversata in treno, taxi, o nei casi più drammatici avventurandosi tra costiere e montagne.
Spesso morendoci.
La quantità maggiore di controlli spinge oggi i fuggitivi ad intraprendere percorsi differenti, come i valichi alpini a Bardonecchia o i sentieri del Monginevro cercando di raggiungere Oulx passando da Claviere.
Anche in questo caso c’è un muro contro il quale non è raro infrangere la propria vita e le speranze di un’esistenza più dignitosa.
I movimenti in direzione della Svizzera sono ormai monitorati in maniera metodica, e al Brennero i migranti (peggio se di pelle scura) si trovano di fronte ad una cooperazione severissima tra la polizia italiana e quella tedesca e austriaca.
Secondo le stime documentate da The Transnational institue (Tni) nel report “Building walls. Fear and securitization in the European Union”, internamente ed esternamente all’Europa ci sono barriere reali in oltre 13 Paesi: la loro lunghezza raggiunge i 1000 chilometri, sei volte il Muro di Berlino.
Un passo indietro che ormai non risparmia nemmeno una delle nazioni che compongono l’Unione Europea, nemmeno quelle unanimemente considerate le più all’avanguardia come la Norvegia, che ha già realizzato una barriera di 3 chilometri verso la Russia.
Left, settimanale diretto da Simona Maggiorelli edito da Editoriale Novanta sarà in edicola dal 12 al 18 aprile.